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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

Gai-Jin (8 page)

BOOK: Gai-Jin
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“Nel frattempo che ne facciamo di quei due folli che hanno ucciso senza averne ricevuto l'ordine?” chiese Sanjiro.

“Ogni atto che imbarazzi la Bakufu è di aiuto a voi.”

“Concordo con te che i due sono stati provocati dai gai-jin. Quei vermi non avevano il diritto di trovarsi così vicini alla mia persona. Il mio stendardo e la bandiera imperiale in prima fila lo proibivano.”

“Dunque lasciate che i gai-jin paghino le conseguenze del loro atto: si sono aperti la strada con la forza sulle nostre coste e contro i nostri desideri e hanno preso possesso di Yokohama.

Con gli uomini di cui disponiamo e un attacco a sorpresa potremmo nottetempo radere al suolo l'Insediamento e bruciare tutti i villaggi circostanti. Potremmo agire questa notte stessa e risolvere il problema per sempre.”

“Si, un attacco improvviso a Yokohama funzionerebbe, ma contro le loro flotte non possiamo niente; non disponiamo di mezzi sufficienti per annientare le loro navi e i loro cannoni.”

“Infatti, sire, e inoltre i gai-jin scatenerebbero immediatamente una rappresaglia. La loro flotta bombarderebbe Edo e la distruggerebbe.”

“Sono d'accordo, e quanto prima ciò avverrà tanto meglio sarà per noi. Tuttavia la distruzione di Edo non significherebbe ancora la fine dello shògunato, e dopo Edo verrebbero a cercare me, attaccherebbero la mia capitale. Non posso correre il rischio di veder distruggere Kagoshima.”

“Credo che potrebbero accontentarsi di Edo, sire. Se la loro base venisse bruciata sarebbero costretti a tornarsene a bordo delle navi e far vela verso Hong Kong. Se decidessero di tornare, in futuro, dovrebbero farlo con ingenti forze e, quel che è peggio, sarebbero costretti a utilizzare anche ingenti forze terrestri per proteggere le loro basi.”

“Hanno umiliato la Cina. La loro macchina da guerra è invincibile.”

“Questa non è la Cina, e noi non siamo i falsi e vili cinesi che si lasciano dissanguare e spaventare a morte da questi avvoltoi. Dicono di voler soltanto commerciare. Bene, anche voi volete commerciare per avere cannoni, navi e fucili.”

Katsumata sorrise e in tono lieve aggiunse:

“Suggerisco di bruciare e distruggere Yokohama fingendo che l'attacco sia stato ordinato dalla Bakufu, cioè dallo shògun. E quando i gai-jin torneranno il Giappone accetterà, pur con riluttanza, di pagare una modesta indennità e in cambio i gai-jin saranno felici di strappare i loro vergognosi trattati e di accettare tutte le condizioni per il commercio che ci piacerà imporre”.

“Ci attaccheranno a Kagoshima” ripeté Sanjiro.

“Non saremo in grado di respingerli.”

“La nostra baia non è aperta come quella di Edo e attaccarci è difficile; inoltre abbiamo batterie nascoste su spiagge segrete, cannoni olandesi di cui i gai-jin non sono a conoscenza, e ogni mese uomini nuovi si uniscono a noi.

Un attacco a Kagoshima da parte dei gai-jin sortirebbe l'effetto di riunire tutti i daimyo, tutti i samurai e l'intero paese in un esercito invincibile sotto la vostra bandiera.

Gli eserciti dei gai-jin non possono vincere sulla terraferma.

Inoltre questa è la Terra degli Dei, e gli dei verranno in nostro aiuto” concluse Katsumata con fervore.

Non credeva a una sola delle sue parole ma sapeva cosa dire quando voleva manipolare Sanjiro. In fondo lo faceva da anni.

“Un vento divino, un vento kamikaze distrusse le armate del mongolo Kublai Khan seicento anni fa. Perché lo stesso vento non dovrebbe soffiare ancora?”

“E vero” rispose Sanjiro, “allora gli dei ci salvarono. Ma i gai-jin sono i gai-jin, gente spregevole, chi sa quali trucchi sarebbero capaci di inventare? E' folle provocare un attacco dal mare fino a quando non avremo navi da guerra per contrastarlo. Comunque hai ragione, gli dei sono dalla nostra parte e ci proteggeranno.”

Katsumata rise tra sé e sé. Non ci sono dei, non esiste nessun Dio, né paradiso e vita dopo la morte.

Credere il contrario è da stupidi. Solo i gai-jin coi loro stupidi dogmi credono a cose simili.

Io credo soltanto a ciò che il grande dittatore generale Nakamura scrisse nella sua poesia di morte: Dal nulla al nulla, il castello di Osaka e tutte le mie gesta non sono che un sogno nel sogno.

“Le sorti dell'Insediamento dipendono interamente da noi” riprese. “Quei due giovani che aspettano di essere giudicati ce ne hanno indicato la via. Vi prego di imboccarla.”

Dopo un attimo di esitazione parlò ancora, ma questa volta in tono molto basso.

“Sire, dicono che segretamente essi siano shishi.”

Gli occhi di Sanjiro si socchiusero in due strette fessure.

Gli shishi, gli uomini dello spirito, così detti a causa del loro ardimento e delle loro gesta coraggiose, erano giovani rivoluzionari, l'avanguardia della rivolta contro lo shògunato.

Erano un fenomeno recente nel paese e si riteneva che non fossero più di centocinquanta.

Per lo shògun e per quasi tutti i daimyo erano soltanto terroristi e folli che andavano isolati.

Per la maggior parte dei samurai, e soprattutto per la truppa, gli shishi erano lealisti che combattevano la giusta ed estenuante battaglia per restituire il potere all'imperatore a cui, così almeno credevano con fervore, esso era stato usurpato dal condottiero Toranaga duecentocinquant'anni prima.

Per la gente comune, i contadini e i mercanti, e soprattutto per il Mondo Fluttuante delle geishe e delle case di piacere, gli shishi erano gli eroi delle leggende, argomento di canti, motivo di lacrime, oggetto d'adorazione.

Gli shishi erano tutti samurai, giovani idealisti originari perlopiù dei feudi di Satsuma, Choshu e Tosa.

In alcuni casi fanatici xenofobi, erano quasi tutti ronin, cioè uomini dell'onda, perchè come le onde erano liberi.

Samurai senza padrone o scacciati dal loro signore per una disobbedienza o un crimine, erano uomini fuggiti dalla loro provincia per evitare una punizione, oppure partiti volontari per diffondere la nuova scellerata eresia che asseriva l'esistenza di un dovere più alto di quello di servire il signore, o la famiglia: il dovere verso l'imperatore regnante.

Alcuni anni prima il movimento shishi era diventato più numeroso e si era strutturato in piccole cellule segrete impegnate nella riscoperta del bashido, le antiche pratiche samurai di autodisciplina, dovere, onore, morte, abilità nel maneggiare la spada e in altre attività marziali, arti in gran parte dimenticate e praticate solo da pochi sensei che ne avevano ma tenuto in vita la tradizione.

Sotto il rigido dominio dei Toranaga che proibiva ogni attività guerresca, nel corso degli ultimi due secoli e mezzo il Giappone aveva vissuto in pace, dimentico delle tradizioni marziali consolidatesi nei lunghi secoli che avevano visto il paese dilaniato da una guerra civile pressoché ininterrotta.

Cautamente gli shishi cominciarono a incontrarsi, a discutere, a fare piani. Le scuole di spada divennero centri di scontento.

Tra i frequentatori comparvero zeloti ed estremisti non sempre animati da nobili intenzioni.

Ma un filo comune legava tutti, la fanatica opposizione allo shògunato e l'odio per l'apertura dei porti giapponesi agli stranieri e ai loro commerci.

Per questo motivo negli ultimi quattro anni gli shishi avevano attaccato i gai-jin dando inizio a una rivolta senza precedenti contro lo shògun Nobusada, il potentissimo Consiglio degli Anziani e la Bakufu che eseguiva fedelmente gli ordini dello shògun regolando ogni aspetto della vita del paese.

Avevano inventato lo slogan sonno-joi: onorare l'imperatore ed espellere i barbari, e avevano giurato di sbarazzarsi di chiunque ostacolasse il loro cammino.

“Anche se sono shishi” ribatté Sanjiro irritato, “non posso permettere che una simile disobbedienza pubblica resti impunita, anche se devo riconoscere che quei gai-jin avrebbero dovuto scendere da cavallo e inginocchiarsi come vuole la consuetudine, e comportarsi da persone civili.

Sì, riconosco che sono stati loro a provocare i miei uomini. Ma ciò non scusa quei due.”

“Sono d'accordo, sire.”

“Allora dimmi che cosa mi consigli di fare” esclamò con irritazione il signore di Satsuma.

“Se sono shishi come tu dici e io li condanno oppure ordino loro di fare seppuku, verrà assassinato entro la fine del mese indipendentemente dal numero di guardie che cercheranno di proteggermi. Non negarlo perchè lo so con sicurezza. E' irritante che pur essendo dei comuni goshi questi uomini dispongano di un potere così grande.”

“Forse la loro forza è proprio questa, sire” rispose Katsumata.

I goshi erano la truppa dell'esercito, samurai venuti dalle campagne, senza un soldo, non dissimili dai soldati contadini del passato, uomini privi di qualsiasi speranza d'ottenere un'educazione, e perciò condannati a non poter mai migliorare la propria condizione, a non essere mai ascoltati neppure dagli ufficiali di basso rango, tantomeno dai daimyo. “Essi non hanno che le loro vite da perdere.”

“Se qualcuno ha una lamentela io l'ascolto, è naturale che lo faccia.

Gli uomini speciali ricevono un'educazione speciale, in alcuni casi.”

“Perché non consentire loro, di guidare l'attacco contro i gai-jin?”

“E se non vi fosse alcun attacco? Non posso consegnarli alla Bakufu, è impensabile. Né tantomeno ai gai-jin!”

“La maggior parte degli shishi sono soltanto giovani idealisti senza cervello né organizzazione. Alcuni sono piantagrane e fuorilegge di cui, da queste parti, non c'è alcun bisogno.

Ciononostante, se impiegato opportunamente, qualcuno di loro potrebbe essere utile. Una spia mi ha detto che il più anziano, Shorin, faceva parte del gruppo che assassinò il primo ministro Li.”

“So ka!”

Era accaduto quattro anni prima.

Il primo ministro Li, principale responsabile delle manovre che avevano portato il giovane Nobusada sul trono dello shògun, non soltanto si era adoperato per combinare un deprecabile matrimonio, osteggiato da tutti, tra il ragazzo e la sorellastra dodicenne dell'imperatore, ma aveva peggiorato ulteriormente la situazione negoziando e firmando il famigerato Trattato.

La sua dipartita non aveva suscitato rimpianti, soprattutto in Sanjiro.

“Mandali a chiamare.” Nella sala delle udienze una cameriera stava versando il tè a Sanjiro.

Katsumata sedeva accanto a lui. Intorno vi erano dieci delle sue guardie personali.

Tutti erano armati a eccezione dei due giovani inginocchiati davanti a Sanjiro.

Le loro spade giacevano sul tatami, a portata di mano.

Benché avessero i nervi tesi fino allo spasimo riuscivano a non tradire alcuna emozione.

La cameriera s'inchinò e si allontanò impaurita.

Sanjiro non l'aveva neppure notata.

Sollevò dal vassoio la piccola tazza di porcellana d'eccellente fattura e sorseggiò il tè. Il sapore del tè gli piaceva, ed era molto contento d'essere nato dalla parte di chi viene servito e temuto.

Finse di studiare la tazza, di ammirarne il disegno mentre la sua attenzione in realtà era dedicata ai due giovani che impassibili aspettavano d'essere giudicati.

Sanjiro sapeva sul loro conto quello che gli aveva detto Katsumata: erano entrambi goshi, soldati semplici com'erano stati i loro padri.

Ricevevano la paga annuale di un koku, una misura di riso, circa cinque stai, considerato sufficiente a sfamare un'intera famiglia per un anno. Entrambi venivano da villaggi nei pressi di Kagoshima.

Uno aveva diciannove anni e l'altro, quello che era stato ferito e ora aveva un braccio fasciato, diciassette.

Entrambi avevano frequentato la scuola per samurai di Kagoshima che Sanjiro aveva voluto vent'anni prima per dare ai giovani dalle attitudini particolari un addestramento superiore, compreso persino lo studio di alcuni scelti manuali olandesi.

I due si erano rivelati ottimi studenti, non erano sposati e dedicavano il loro tempo libero all'apprendimento, e al perfezionamento dell'arte della spada.

Entrambi un giorno o l'altro avrebbero ricevuto una promozione. E maggiore si chiamava Shorin Anato, il più giovane Ori Ryoma.

Il silenzio divenne più pesante.

All'improvviso Sanjiro si rivolse a Katsumata come se i due non esistessero:

“Se qualcuno dei miei uomini, per quanto valoroso, per quanto provocato, dovesse commettere per una ragione o un'altra un'azione violenta da me non autorizzata e in seguito si lasciasse catturare, dovrei certamente punirlo con severità”.

“Si, sire.”

Vide il bagliore negli occhi del consigliere.

“Disobbedire è da stupidi. Se gli uomini in questione volessero restare in vita la loro unica possibilità sarebbe quella di fuggire e diventare ronin perdendo la paga. Uno spreco, nel caso di uomini valorosi.”

Poi esaminò i due giovani con attenzione. Scoprì con grande sorpresa che non c'era niente da leggere sui loro volti, soltanto la stessa grave impassibilità.

Divenne ancora più circospetto.

“Avete ragione, sire. Come sempre” disse Katsumata.

“Potrebbe tuttavia darsi il caso che questi uomini, se fossero uomini speciali, uomini d'onore, sapendo di aver disturbato la vostra armonia e di doversi perciò aspettare una severa punizione... potrebbe darsi che questi uomini speciali riescano a proteggere i vostri interessi anche come ronin, forse anche qualcosa di più dei vostri interessi.”

“Uomini simili non esistono” ribatté Sanjiro lieto che il consigliere condividesse il suo punto di vista.

Volse lo sguardo crudele sui due giovani.

“Non è vero?”

I due samurai cercarono di non abbassare gli occhi ma furono sopraffatti.

Fu Shorin, il maggiore, a dire in un sussurro: “Esistono, esistono simili uomini, sire”.

Il silenzio divenne ancora più opprimente mentre Sanjiro aspettava che anche l'altro si dichiarasse.

Infine il giovane Ori annuì in modo impercettibile, appoggiò entrambe le mani sul tatami e si prostrò.

“Si, signore, sono d'accordo.” Sanjiro era soddisfatto d'aver guadagnato i servigi gratuiti di due spie tra le fila dei ribelli, spie di cui Katsumata avrebbe dovuto rispondere.

“Se esistessero, uomini simili sarebbero utili.”

Il suo tono era secco e definitivo.

“Katsumata, scrivi immediatamente una lettera alla Bakufu per informarli che due goshi chiamati ...” riflettè per un istante senza prestare attenzione ai rumori nella stanza, “metti due nomi a caso... oggi sono usciti dai ranghi e hanno ucciso dei gai-jin a causa dell'atteggiamento provocatorio e insolente di questi ultimi in quanto erano armati di pistole puntate minacciosamente contro il mio palanchino.

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